L’idea di poter esplorare il feto con una metodica diretta non è cosa recente e data più di 20 anni. A quei tempi, infatti, l’uso dell’ecografia bidimensionale e particolarmente del real-time era ancora inficiato da grossi limiti tecnici che fornivano risultati poco soddisfacenti in termini di imaging.
Risultava, pertanto, necessario disporre di un metodo che permettesse una corretta visualizzazione del feto in utero e si proponesse come tecnica sussidiaria ad interventi invasivi quali, in particolare, la funicolocentesi.
Hobbins e Coll. nel 1974 iniziarono ad eseguire, nel secondo trimestre di gravidanza, una procedura di visualizzazione del feto tramite l’introduzione di una ottica rigida, simile ai moderni isteroscopi che però, in considerazione dei limiti delle ottiche utilizzate in quell’epoca, permetteva visualizzazioni molto parziali con campi di esplorazione limitati e soprattutto aveva il grande difetto di essere di dimensioni piuttosto cospicue e con un diametro dello strumento che si aggirava intorno al mezzo centimetro.
È intuibile comprendere come un’operazione così invasiva conducesse ad un gran numero di aborti che, anche in mani esperte, non era solitamente inferiore al 5-10% dei casi.
La rottura del sacco amniotico risultava essere l’evenienza più frequente ma talvolta venivano descritte complicanze ostetriche più gravi come distacchi di placenta con conseguenti emorragie estremamente pericolose.
D’altra parte i benefici che se ne potevano trarre erano piuttosto limitati giacché, come si è detto in precedenza, l’area visualizzabile era piuttosto piccola, permettendo un campo di visione solitamente non superiore ai 2-3 cm.
La luce veniva portata con una voluminosa fibra ottica primordiale, che aveva anche il difetto di condurre calore alle strutture endoamniotiche.
Ad ogni modo, la fetoscopia fu il primo metodo soddisfacente per ottenere, attraverso il campionamento del funicolo all’inserzione placentare o fetale, sangue fetale puro, permettendo così la diagnosi prenatale di numerose patologie (emoglobinopatie, alterazioni piastriniche, infezioni fetali, coagulopatie, trasfusione fetale).
La tecnica, dopo una prima fase di entusiasmo, fu progressivamente abbandonata oltre che per i suoi limiti e per i rischi ad essa connessi, per il notevole affinamento qualitativo delle immagini fornite dall’ecografia.
La prima e più importante applicazione della fetoscopia, la funicolocentesi, venne sempre più di frequente eseguita con il solo ausilio della localizzazione ecografica del cordone.
Gli operatori divennero pertanto più esperti nel maneggiare la sonda ecografica, localizzare la sede più adatta al prelievo di sangue dal cordone ombelicale ed a penetrarvi, con precisione millimetrica, con il solo ago senza il sussidio del fetoscopio.
Ciò ridusse enormemente le indicazioni alla fetoscopia. Ciononostante, verso la fine degli anni ‘80, Dumez e Coll. ed in seguito Cullen e Coll. utilizzando per primi un endoscopio rigido di diametro più sottile, di circa 2 mm., visualizzavano l’embrione introducendo tale strumento per via transcervicale. Anche in Italia si tentò tale via, ed in quegli anni, presi dal grande interesse per la villocentesi, molti provarono ad utilizzare endoscopi rigidi per via transcervicale oltre che per visualizzare l’embrione, anche per il prelievo di villi coriali sotto visualizzazione diretta.
Questi tentativi furono improvvisamente interrotti quando, nel 1987, si ebbe notizia che, in un noto Ospedale torinese, durante una procedura di tale tipo, eseguita peraltro su una donna non informata, che si stava sottoponendo ad un’interruzione volontaria di gravidanza, si verificò un’embolia gassosa con morte della gestante.
La fetoscopia passò pertanto progressivamente nell’oblio, relegata ad essere una procedura del tutto eccezionale applicabile solo in casi dove la visualizzazione diretta della cute del feto poteva porsi come l’unica indicazione sufficientemente valida.
Recentemente, la tecnologia delle fibre ottiche ha permesso di ottenere endoscopi così sottili da poter passare nel lume di un ago e poter essere diretti, essendo flessibili, in distretti lontani, lungo tragitti tortuosi che portano le immagini dirette del loro percorso e del luogo che interessa. In letteratura cardiovascolare, ad esempio, è stato descritto l’impiego di endoscopi del diametro tanto piccolo (detti angioscopi) da poter passare attraverso i vasi ed arrivare al cuore per valutare il lume delle arterie coronarie.
Prendendo spunto dai cardiologi, Cullen e Coll. prima e Quintero e Coll. in seguito, hanno sviluppato una tecnica per la visualizzazione diretta dell’embrione e del feto per via transaddominale in epoca precoce di gravidanza.
Lo strumento è rappresentato da un piccolo endoscopio flessibile (diametro 0.7 mm) inserito nel lume di un ago e portato, tramite questo, sotto guida ecografica, direttamente nel sacco gestazionale.
I vantaggi, rispetto alla precedente fetoscopia, sono evidenti:
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Minor rischio connesso alla scarsa invasività
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Precocità di applicazione (1° trimestre di gravidanza) legata alle minime dimensioni dello strumento e del campo visivo.
La fibra ottica è flessibile e sottile, estremamente delicata ed il numero dei punti luce che riesce a trasferire, ricostruisce l’immagine. Ovviamente maggiore sarà il numero dei punti luce (detti Pixel) a parità di superficie e più definita sarà la visione.
Materiali e metodi
Come si è già accennato, l’embrioscopio altro non è che un angioscopio, opportunamente scelto tra i numerosi messi in commercio dall’industria ed adattato alle esigenze più specifiche.
Il sistema si compone di:
- fibra ottica, fonte luminosa, telecamera, monitor, eventuale sistema di registrazione e fotografia
La fibra ottica, rappresenta l’elemento più importante di tutto il sistema operativo. La sua scelta è sempre frutto di un compromesso tra le diverse caratteristiche tecniche. Essa è composta di un fascio di microfibre ognuna delle quali porta un pixel. Alla periferia di queste, scorrono altre microfibre, che portano l’illuminazione. Esse sono avvolte attorno alle prime e protette da un trattamento impermeabile alla luce. Alla fine della fibra è posta una lente, necessaria per focalizzare e per determinare il campo di esplorazione. L’angolo di visualizzazione, ottenuto tramite l’interposizione della microlente, è variabile a seconda della geometria di quest’ultima.
Il compromesso si deve ottenere tra la qualità dell’immagine, che è maggiore quanto più numerose sono le microfibre ed il diametro della fibra che cresce di conseguenza. Anche l’angolo è di importanza critica perché va impiegato un campo visivo sufficientemente ampio, ma non tanto, da “sgranare” eccessivamente l’immagine fornita dai pixel.
In principio utilizzammo fibre tipo Snowder Pencer con le seguenti caratteristiche:
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circa 3.000 pixel.
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diametro esterno 0.7 mm
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angolo di esplorazione intorno ai 100 gradi
Attualmente siamo passati ad una nuova fibra della Saratoga con le seguenti caratteristiche:
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6.000 pixel.
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diametro esterno 0.45 mm
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angolo di esplorazione 120 gradi
Con tale fibra si ottiene un campo visivo ben focalizzato e definito di circa 2-3 cm di diametro. L’ago da utilizzare ha un gauge inferiore. L’immagine è inoltre molto migliorata.
La fonte luminosa deve essere di ottima qualità, capace di una grande potenza. La regolazione automatica non è richiesta poiché si preferisce operare manualmente. Noi utilizziamo una fonte allo Xenon da 300 watt.
La telecamera, connessa con la fibra ottica, deve avere anch’essa ottime caratteristiche.
Il monitor televisivo, contrariamente a quanto si possa pensare, è importantissimo. Un’immagine che può sembrare scadente, con un monitor diverso e più appropriato, cambia radicalmente di qualità. Va scelto il migliore disponibile in commercio.
Tutto il sistema necessita di essere “tarato” prima di iniziare ogni procedura.
Ovviamente l’inserimento dell’ago avviene sotto la guida diretta dell’ecografo, esattamente come per le altre metodiche invasive, avvalendosi dell’ausilio di un assistente per sorreggere il sistema.
Procedura
L’embrioscopia è una tecnica che, sebbene invasiva, risulta di facile esecuzione e non comporta particolare disagio per la paziente.
Si esegue pertanto ambulatoriamente senza necessità di anestesia.
Questa procedura viene, come detto, condotta sotto attento controllo ecografico e con la medesima tecnica utilizzata per il prelievo dei villi coriali, usando uno stativo del tipo già descritto per l’amniocentesi e la villocentesi. Dal punto di vista pratico, la procedura si esegue inserendo, in utero per via transaddominale, un ago del diametro di 19 – 20 gauge e della lunghezza di 15. Dopo la rimozione del mandrino, si inserisce l’endoscopio flessibile che ha un diametro di 0.45 mm.
L’ago viene diretto all’interno della camera gestazionale e, solitamente, non è necessario forare l’amnios per ottenere una buona visualizzazione del feto.
Intorno alla 9^ settimana esiste ancora un discreto spazio amnio-coriale, disteso dal liquido. La membrana coriale è molto sottile e trasparente e pertanto, qualora si penetrasse solo in quella amniotica, non è necessario forarla per ottenere un’ immagine sufficientemente chiara.
Una volta entrati in cavità gestazionale, rimosso il mandrino e inserito l’embrioscopio, l’estremità di questo viene fatta affiorare alla punta dell’ago. Da questo momento in poi la manovra passerà sotto il diretto controllo della visualizzazione endoscopica.
Nella maggior parte dei casi, all’embrioscopia si associa la villocentesi. Per evitare di praticare due inserzioni dell’ago e quindi rendere l’esame doppiamente invasivo e decisamente sgradevole per la paziente, bisogna stabilire, prima di introdurre l’ago, una via di accesso che permetta di ottenere entrambi i risultati con un’unica procedura.
Se la placenta è disposta anteriormente, si penetra con l’ago 18 gauge fino al limite del chorion, si introduce l’ago prelevatore 20 gauge e si esegue la villocentesi, come scritto nel capitolo specifico. A questo punto si prosegue con il tragitto dell’ago-guida e, una volta arrivati all’interno della cavità, si introduce l’embrioscopio.
Se la placenta è disposta posteriormente, si esegue esattamente l’opposto. Con l’ago 18 si penetra in cavità, si esegue l’embrioscopia, poi, sotto diretta osservazione, si penetra nella placenta e si esegue la villocentesi. Tale seconda procedura è stata da alcuni autori addirittura consigliata per evitare danni all’embrione durante l’attraversamento della cavità amniotica.
Con il tipo di fibra da noi utilizzato, la migliore visualizzazione del feto si ottiene operando tra la 9^ e la 11^ settimana di gestazione. In questa fase si ottengono ottime immagini dell’anatomia embrionaria e soprattutto degli arti con particolare riguardo a mani e piedi.
In epoche più precoci la visualizzazione risulta anche più completa con una visione d’insieme più suggestiva. Per analogia con quanto descritto per la villocentesi, preferiamo non eseguire tali procedure in epoche di gravidanza molto precoci. Pur non infliggendo un trauma diretto al feto, l’ipotetico rischio può essere enfatizzato dalla precocità del prelievo. Eseguire embrioscopie in epoche più avanzate, limita enormemente l’esplorazione, a causa della crescita fetale e delle scarse dimensioni del campo visivo. Uno studio completo dell’anatomia risulterebbe impossibile.
Rischi e complicanze.
Questa tecnica di diagnosi prenatale è di recente introduzione e quindi non esistono ancora percentuali ben definite di rischio abortivo e iatrogeno connesse alla procedura. Per quel che concerne il rischio abortivo si può solo preventivare un rischio teorico, che, per analogia con la villocentesi, si dovrebbe aggirare intorno al 1/3% dei casi. La villocentesi infatti presenta molte analogie in fatto di invasività: a parità di epoca di esecuzione e calibro degli aghi. Esiste però una differenza sostanziale tra le due procedure che, sempre in via teorica, dovrebbe rendere meno pericolosa l’embrioscopia rispetto alla villocentesi: la mancata lesione traumatica della placenta dovuta alla frammentazione da prelievo del materiale villare.
All’opposto va considerato che, anche se l’embrioscopia non frammenta i villi, questa però ha bisogno di un tempo più lungo necessitando, per una buona esplorazione di tutto l’embrione, di un tempo non inferiore, nella nostra esperienza, al minuto.
Per quello che riguarda il rischio iatrogeno, non abortivo, questo è soprattutto mirato al possibile danno portato all’embrione dall’esposizione ad una intensa fonte di luce, in un’epoca di gravidanza così precoce.
È ancora troppo presto per poter attribuire a tale procedura il rischio di provocare danni ai vari organi ed in particolare a quello della vista, ma risulta comunque prudente evitare di dirigere, ove non fosse strettamente necessario, l’ottica dell’embrioscopio verso il viso dell’embrione. In particolare risulta assolutamente necessario non protrarre l’osservazione oltre i limiti temporali della stretta necessità.
Vale comunque, in questa come in tutte le procedure sperimentali, la regola di praticarle solo qualora i benefici siano di gran lunga superiori agli eventuali, possibili rischi.
I genitori debbono essere minuziosamente informati oltre che sulla tecnica e sulle sue potenzialità, anche e soprattutto sull’esperienza dell’operatore e sulla casistica del Centro. Da alcuni, come detto in precedenza, tale tecnica è stata anche proposta come metodica complementare all’esecuzione di villocentesi.
La visualizzazione diretta della strada seguita dall’ago per raggiungere il chorion e prelevare i villi, rappresenterebbe, secondo questi autori, una tecnica di ausilio alla villocentesi volta a ridurre il possibile rischio di contatto traumatico dell’ago con il feto. In tal caso, qualora si perforasse la cavità gestazionale e si visualizzasse l’embrione, in via teorica il rischio iatrogeno ed abortivo delle due metodiche tenderebbe, secondo noi, a sommarsi piuttosto che a ridursi. Nella nostra esperienza abbiamo eseguito alcune embrioscopie quale ausilio alla villocentesi, solo in quei casi in cui il passaggio transamniotico dell’ago risultava assolutamente necessario per poter raggiungere il chorion, disposto posteriormente.
Negli altri casi, l’embrioscopia costituiva l’esame principale; si associava la villocentesi solo a scopo complementare, ai fini di una più corretta definizione del quadro diagnostico.
Indicazioni
L’embrioscopia, vista la sua recente introduzione, non ha ancora indicazioni ben codificate. Esse comunque possono dividersi in:
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indicazioni diagnostiche
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indicazioni terapeutiche
Sono da ritenersi indicazioni diagnostiche assolute all’esecuzione dell’embrioscopia, tutte quelle gravidanze ad alto rischio di patologia a trasmissione genica, per le quali non esiste altro mezzo diagnostico e per le quali rappresenta un valore semeiologico mandatorio l’esistenza di un’anomalia delle mani e/o dei piedi. Si contano infatti oltre 200 sindromi a trasmissione genica ed a rischio variabile per le quali una delle caratteristiche presenti e ripetitive è il riscontro di rilevanti anomalie degli arti ed in particolare delle mani e/o dei piedi. In tali casi l’embrioscopia costituisce un mezzo diagnostico precoce ed estremamente affidabile. Sono da ritenersi indicazioni diagnostiche ancillari quelle mirate alla conferma di un sospetto ecografico ottenuto con sonda transvaginale di diverse anomalie embrionali. Tra le indicazioni diagnostiche secondarie, è stata proposta la visualizzazione rapida del sesso fetale nelle malattie X-Linked. In tali casi l’embrioscopia offre invece risultati contraddittori e spesso erronei in relazione al possibile errore di sesso. Embrioni fino alla 11^ settimana spesso presentano genitali esterni ambigui, facilmente attribuibili al sesso maschile, per la presenza del tubercolo genitale che è molto voluminoso nelle femmine e che può essere facilmente scambiato per l’abbozzo penieno. Le creste genitali, che nella femmina daranno luogo alle grandi labbra e nel maschio alla borsa scrotale, sono, fino a questa settimana di gravidanza, molto simili e difficilmente distinguibili.
Le indicazioni terapeutiche “in utero” sono costituite da quelle procedure correttive invasive che necessitano talvolta di una visualizzazione diretta della sede dell’organo dove si intende intervenire. In tal senso l’embrioscopia rappresenta un formidabile ausilio agli interventi effettuati all’interno della cavità amniotica e/o del corpo fetale ed eseguiti mediante diverse tecniche e procedure. Gli strumenti per operare “in utero” (micropinze, microbisturi, elettrodi, cauteri, laser, ecc….) possono essere portati all’interno dell’addome materno e del feto stesso da opportune vie operative rigide assieme all’ottica dell’embrioscopio.
Esistono già numerose esperienze in tal senso, alcune delle quali veramente geniali. Vale la pena di ricordare l’esperienza di Quintero che ha brillantemente elettrocoagulato delle valvole dell’uretra posteriore in un feto di 22 settimane di gestazione con megavescica. L’intervento, perfettamente riuscito, non ha comunque salvato la vita del neonato che è ovviamente deceduto per ipoplasia polmonare; l’intervento, infatti, fu praticato in un’epoca di gestazione troppo avanzata per permettere una riabilitazione della fase di maturazione polmonare.
In altri termini, l’intervento è riuscito…ma il paziente è morto!
Di grande interesse etico risulta invece questa metodica, in quei casi dove la paura di una possibile malformazione embrionaria porta le madri a richiedere ingiustificatamente l’interruzione della gravidanza, anche in situazioni in cui il figlio è fortemente desiderato.